Asfalti una via per il cielo



Un naturale senso di ancoraggio alla terra con il suo senso di gravità spinge l'uomo a destinare più tempo al controllo di ciò che calpesta che alla possibilità di alzare la testa verso il cielo. Tra i nostri occhi e il suolo intercorre uno spazio più esiguo di quello che ci costringerebbe innaturalmente a rovesciare la testa indietro, verso l'alto, mentre il peso la piega immancabilmente in basso giacché, di norma, è la terra a tendere tranelli ai nostri passi e il cielo a costituire un'ignota riserva di garanzia sopra di noi. Al suo ingresso in chiesa il visitatore è attratto prima dal pavimento che dal soffitto e in molte altre occasioni architetture di proporzioni monumentali suggeriscono al nostro sguardo la via verso terra prima che gli occhi abbraccino le volte o il soffitto. 

L'uomo contemporaneo si aggira in spazi lontani dalla grandiosità di templi e palazzi. Essi si svolgono abitualmente entro il perimetro che va dalla strada di cui calpesta l'asfalto, alla sommità di edifici sopra i quali il cielo si stende nuovamente come un lenzuolo infinito. Tuttavia - forse per l'intrinseco senso di un'analogia tra opposti ? - guardando a terra, per quanto attento a ciò che, alla lettera, capita "sotto" il proprio sguardo, l'uomo simultaneamente percepisce il polo opposto sospeso "sopra" la propria testa, come potesse esplorarne in dettaglio le risorse. 

Gli "Asfalti" di Emanuele Barbagallo giocano sulla doppia polarità appena descritta sgusciando fuori dalla frontalità tradizionale con cui si affronta la tela, sia nell'attitudine che per tradizione ci pone in ascolto dinanzi ad essa attendendo che sia lei a fare il primo passo verso di noi, come, all' opposto, in quella che ci suggerisce l'affondo in un "oltre", in un "aldilà" che ci predispone molto più umilmente a "una raccolta di dati", a incontri e a "incidenti di percorso", destinati a segnare il cammino sulla base di un' attenzione che pone l'accento su una disposizione d'animo verso il "ricercare", piuttosto che a una condizione prestabilita da secoli di tradizione.

Nel passaggio dalla posizione originariamente

parallela a chi guarda a quella orizzontale della stesura dell'asfalto, poi a quella frontale dove l'opera si collocherà a parete, c'è tempo per una serie di spostamenti e inclinazioni dello sguardo, che accoglie sia le diagonalità incontrate nel movimento lungo il percorso, sia gli avvicinamenti, le "schiacciature" o gli arretramenti, in cui l'occhio registra la realtà ogni volta da posizioni diverse e lo spirito ha il tempo di concentrarsi - all'occorrenza di fermarsi - fissandosi su un particolare sino a riconoscerne il valore e a valutarne peso e significato. 

Come un operaio che umilmente si rimbocca le maniche prima di cominciare il suo lavoro senza alcuna idea preconcetta, Emanuele Barbagallo si mette a preparare con cura e attenzione la struttura del telaio che ha il compito fondamentale di sostenere anche 30 - 40 kg di asfalto su di una spessa tela ben tesa che dovrà impedire, tuttavia, al composto di irrigidirsi completamente. Alla preparazione del fondo con asfalto ad acqua e resina, deve aderire - quando è ancora fresca perché leghi perfettamente - la sabbia calcarea o il brecciolino dell'asfalto, steso uniformemente con una piccola cazzuola da muratore in modo che lo si possa controllare granello per granello ottenendo che lo strato, reso omogeneo da un'impegnativa operazione di miscelatura, si rapprenda uniformemente in tutta l'ampia stesura in un tempo di essiccazione assai breve di 40 - 50 minuti.

Può sembrare una forzatura, ma questa sovrapposizione per strati di valori di profondità e di superficie, di stesure in trasparenza e di condensazioni impenetrabili, uniti alla velocità con cui la materia agisce poi automaticamente e

omogeneamente, evocano l'analogia con la fotografia più che con la pittura. La prima "impressione" è nella pellicola della mente, il lavoro di sviluppo e di stampa avvengono materialmente attraverso operazioni manuali che troveranno risoluzione nella temporalità unica e pressoché immediata dell'azione chimico-fisica dei composti.

Il segreto, l'alchimia dell'operazione sta nel rapporto tra un materiale pesante, greve e "inospitale" come l'asfalto e la sua trasformazione in una superficie lieve, colta in trasparenza attraverso le resine a cui, proprio la "buccia" rugosa dell'asfalto ha fatto, nell'occhio, da trampolino di lancio, accelerando la percezione ottenuta come dallo sfregamento (frottage) tra due pietre focaie. Una scintilla intrappolata nel vitreo dell'occhio e restituita in leggerezza e sospensione a mezz'aria tra cielo e terra. L'occhio non spicca soltanto il suo salto dal basso verso l'alto come in una capriola all'indietro intercettando spazi liberi dalla gravità della terra, ma osserva e riflette su tutto ciò che dall'alto cade verso terra dalla natura - foglie, rami, frutti - o dall'uomo - un guanto, una scatola, una sciarpa, mozziconi di sigaretta - a ricongiungere opposti poli, a superare ambiti e confini, a trafiggere a perpendicolo materia e spirito, in un costante spiazzamento, in una deterritorializzazione di elementi che invitano a percorrere nuove soglie sensibili e nuovi aspetti di misticismo psichico-mentale.

Lungo il percorso segnato talora da strisce pedonali, da paracarri mobili e segnavia, da linee tratteggiate, da macchie scure come pozzanghere che si fanno riflettenti, l'azzurro s'insinua tra le sgretolature del brecciolino e si apre allora una finestra immaginaria, un riquadro emblematico. Una croce s'incontra che vira verso il fondo, proiettata verso un altrove, o la materia si accorpa e schiuma in superficie rarefatta come una sfilacciata dissolvenza di nuvola, un ramo di melograno poggiato sulla

grata di un tombino offre un appiglio di salvazione all'ombra di una sindone che un velo di resina ha disegnato sullo sfondo.

Emanuele Barbagallo cammina come un saltimbanco a testa in giù, ma riesce modernamente a farci sentire la trasparenza del cielo sopra il nostro sguardo capovolto nella corsa dell'occhio sull'asfalto, teso a svolgere una parabola che ricongiunga il cielo alla terra.

Da un'operazione di "art brut", di umiliazione dello sguardo verso terra, senza passare per l'antico ciclo naturale-rurale, ma, al contrario, balzando nel moderno inferno di peci e catrami - e senza riconfermare l'antico corpo della pittura deposto sulla tela come dentro il suo sudario - l'autore, dopo lo sforzo della mescolanza, agisce in velocità e compensazione, per analogie contrapposte in linea evocativa, liberando il fantasma della pittura e cristallizzandolo nell'attimo del suo trasversale rinvio,

dimostrando per paradosso che se "di buone intenzioni sono lastricate le vie dell'Inferno", di asfalti e bitumi possono essere pavimentate le vie del cielo.

(Roma, 17 aprile 2011)

                                            Giovanna dalla Chiesa



PASSAGGI e PASSAGGI

Dopo un cammino svolto in solitudine, di lenta “raccolta” e “accertamenti” lungo la propria strada, è con una nuova sterzata dell’occhio che l’autore rovescia giù, dal fondo magmatico delle proprie esperienze umane, spirituali e affettive, l’insieme d’immagini e gesti che recano impressa la traccia del proprio esistere. Non può essere che il gesto repentino di chi si volge indietro apprezzando il cammino percorso e affastella in un istante frammenti concentrati in flash susseguenti, quello che l’artista ci propone ora, capovolgendo e schiacciando a terra i corpi e le figure di questi inattesi ospiti della visione. La prospettiva dall’alto indica l’estensione fra alto e basso con un allontanamento del punto di vista che si traduce poi in un’accelerazione e contrazione delle proporzioni sino a uno spasmo di superficie, dove il corpo si torce e condensa in un intreccio di frammenti, quasi irriconoscibili. Da lì, tuttavia, le figure ancora manifestano la propria identità con cenni di richiamo e di risposta cercando verso l’alto, da dove sono precipitate, la propria autorizzazione a esistere e il proprio riconoscimento. Presenze che l’autore ha colto in un “passaggio”, mescolando come in un caleidoscopio brandelli dell’asfalto che ha sostenuto il suo cammino, a istantanee di persone con cui certamente è stato e resta in relazione. Verso cosa volgere i propri passi, se con la mente non possiamo ripercorrere gli attimi attraverso cui le presenze spiate e osservate nel nostro andare si sono ormai collocate come punti naturali di snodo, o all’occorrenza di deviazione ? Esse ci accompagnano sicure di essere da noi osservate, come noi le osserviamo, con il senso di una presenza che ancora confida in una realtà che è relazione, attenzione e intenzione, apparizioni nel teatro di un’esistenza, dove ogni gesto s’inscrive su un supporto trasparente, ma indelebile come quello della nostra coscienza: dimensione dove l’io ha ormai deposto ogni pretesa e può assistere estatico, come in “Deposizione urbana”, alle proprie rappresentazioni.

(Roma, 16 novembre 2014)

                                             Giovanna dalla Chiesa